La grande esplosione di Tunguska
II 30 giugno del 1908 gli abitanti di Nizhne-Karelinsk, un piccolo villaggio nel cuore della Siberia, spaventati e affascinati, videro una vivida striscia bluastra solcare il cielo di nordovest a folle velocità. Quello che all'inizio era sembrato un solo punto luminoso si era mantenuto tale per non più di dieci minuti, poi si era spaccato in due. All'impatto con la Terra la "cosa" aveva sollevato una intensa e spessa coltre di fumo e detriti. Qualche secondo ancora e c'erano state delle violente detonazioni che avevano fatto tremare le case. Credendo fosse arrivato il giorno del giudizio divino, molti si erano gettati a terra in ginocchio, implorando il perdono di Dio. |
Come si venne poi a sapere a seguito delle vaste indagini, il villaggio di Nizhne-Karelinsk distava quasi 400 km dal punto dell'urto, tuttavia i tetti delle case avevano abbondantemente tremato, scrollandosi di dosso la polvere del tempo. Il treno della Transiberiana si era fermato, perché il conducente aveva avuto l'impressione che fosse deragliato; mentre i sismografi della cittadina di Irkutsk, segnalavano senz'altro un terremoto di vaste e potenti dimensioni. E pensare che sia la città sia il treno in quel momento distavano circa 1200 km dall'epicentro del fenomeno.
Qualunque cosa sia stata a cadere nella regione siberiana, era esplosa sprigionando un'energia strepitosa. Le onde d'urto avevano fatto due volte l'intero giro del pianeta prima di acquietarsi e gli effetti meteorologici sull'emisfero settentrionale ebbero strascichi a lunga gittata oltre che singolari. Per tutta la restante parte del mese di giugno, per esempio, a mezzanotte a Londra si potevano leggere con tutta tranquillità gli articoli del «Times», notoriamente scritti in caratteri a dir poco minuscoli. Sui quotidiani circolavano fotografie notturne di Stoccolma che sembravano scattate di giorno ed invece erano state prese nel cuore della notte senza alcun altro ausilio, vale a dire utilizzando la luce naturale; ma anche celebre era diventata l'immagine della città russa di Navrochat scattata a mezzanotte e limpida e chiara come una qualsiasi presa in un bel pomeriggio estivo.
Per alcuni mesi il mondo intero potè assistere a tramonti e aurore spettacolari, almeno tanto belle e impressionanti quali quelle generate dal vulcano Krakatoa a seguito della spettacolare esplosione del 1883. Da qui, oltre alle solite immense nubi vulcaniche, si era sollevata nell'atmosfera terrestre una grande quantità di polvere, come avviene nelle esplosioni nucleari.
Ma la cosa più singolare di questo evento sta nel fatto che all'epoca non ci fu nessuno che gli prestò attenzione. Nei giornali locali erano comparsi alcuni trafiletti, ma al di là di questo non era successo null'altro. I meteorologi si interrogavano sugli strani fenomeni celesti e climatici, ma a nessuno venne in mente di risalire alla vera causa di tutto quel pandemonio.
Fu solo dopo la fine della prima guerra mondiale e dopo che l'impero zarista era stato rovesciato dalla rivoluzione che lo straordinario evento venne finalmente portato all'attenzione del mondo della scienza e della ricerca. Nel 1921, come parte del piano più generale previsto da Lenin per collocare in prima fila nel campo scientifico la sua Russia davanti agli occhi del mondo, l'Accademia sovietica delle Scienze assegnò al professor Leonid Kulik il compito di investigare in modo appropriato sulle precipitazioni di meteoriti sul territorio russo. Kulik fu il primo, dunque, a cercare di ricostruire ciò che era accaduto. Dopo aver messo insieme i pochi rapporti giornalistici redatti all'epoca, si era senz'altro convinto che qualcosa di veramente importante doveva essere accaduto nel cuore della Siberia in quella estate del 1908.
I rapporti e i resoconti raccolti suonavano però contraddittori e confusi. Non ce n'erano due che concordassero sull'esatto punto dello schianto. In alcuni, invece, si diceva che il meteorite era stato persine trovato. Insomma, una grande confusione. Tuttavia, quando i suoi collaboratori avevano incominciato a raccogliere testimonianze, Kulik aveva trovato nuovamente conferma dell'eccezionalità del fenomeno. Doveva indagare, assolutamente, perché non si trattava di un "normale" meteorite.
Tutti i rapporti erano per lo meno concordi su di un aspetto: quando l'oggetto si era schiantato al suolo, aveva creato un cratere enorme, dal quale si era innalzata una colonna di fumo e fuoco ardente più del Sole stesso. Capanne distanti erano state spazzate via e le mandrie di renne si erano disperse terrorizzate. Un uomo, intento ad arare nel suo piccolo campo, aveva avvertito un forte calore sulle spalle, mentre altri dichiararono di aver subito delle evidenti scottature sul viso, ma solo da un lato. Altri erano diventati temporaneamente sordi per il gran frastuono ed altri ancora avevano riportato per un lungo periodo i segni degli effetti termici legati al misterioso fenomeno. Ciò malgrado, molto stranamente, non si aveva avuto notizia di vittime o di persone ferite in modo serio. La "cosa" piombata dal cielo aveva scelto uno dei rari luoghi del pianeta in cui gli effetti della sua caduta sarebbero stati contenuti e non catastrofici. Si fosse presentata all'impatto con la Terra qualche ora più tardi, si sarebbe schiantata su San Pietroburgo, Londra o New York. Anche se fosse sprofondata nell'oceano, le gigantesche ondate che si sarebbero sollevate avrebbero devastato e cancellato dalla faccia della Terra tutte le zone costiere. Insomma, quel fatidico giorno l'umanità aveva corso il rischio del più terrificante disastro della Storia e non se n'era neppure resa conto.
Dopo tanto cercare, però, alla fine Kulik era riuscito a mettere le mani sul rapporto di un meteorologo locale, il quale, bontà sua, si era preoccupato di segnare le coordinate del punto di impatto. Ricevuta conferma dall'archivio dati dell'Accademia delle Scienze, il professore aveva così potuto organizzare la spedizione e muoversi per raggiungere il luogo dell'impatto con la necessaria cognizione di causa.
L'immensa foresta siberiana è uno dei luoghi più desolati di tutto il pianeta. Ancora oggi è in gran parte inesplorata e ci sono zone che l'occhio umano ha solo visto dall'alto, tramite ricognizioni aeree. I pochi insediamenti esistenti sono tutti raggruppati lungo le rive dei grandi fiumi, alcuni tanto larghi da non riuscire a occhio nudo a guardare da una sponda all'altra. Gli inverni sono gelidi, mentre in estate il terreno si fa paludoso e l'aria è infestata da sciami di insetti. Kulik era atteso da un'impresa molto difficile. L'unica possibilità per muoversi erano cavalli e muli oppure zattere per spostarsi lungo i fiumi, senza, per di più, sapere dove andare a parare o che cosa cercare esattamente.
Nel marzo del 1927 Kulik era dunque pronto. Nel gruppo c'erano anche due guide locali che dicevano di aver assistito all'evento. Dopo non poche traversie, ad aprile, la spedizione era approdata sul fiume Mekirta, il corso d'acqua più vicino al punto dell'impatto, all'epoca una sorta di barriera naturale fra la foresta intoccata e vergine e una devastazione pressoché totale. Raggiunto finalmente il posto della catastrofe, per prima cosa Kulik era salito su di una vicina altura per osservare la zona dall'alto. Per quanto gli riusciva di spingere lo sguardo lontano in direzione nord - una distanza di quasi venti chilometri - non si scorgeva un solo albero rimasto in piedi. Erano stati tutti atterrati dall'esplosione e ora giacevano distesi come tanti soldatini abbattuti, tutti rivolti verso di lui. Era inoltre chiaro che lo spettacolo che stava osservando era soltanto una parte della totalità della devastazione, visto che a perdita d'occhio gli alberi risultavano tutti coricati, allineati nella medesima direzione. La catastrofe doveva essere stata ben più grande di quanto anche i rapporti più generosi avevano riportato.
Quando Kulik aveva deciso che si sarebbe perlustrata l'intera zona devastala, le due guide si erano spaventate e avevano rifiutato di seguirlo. Anzi minacciavano di lasciare il luogo, abbandonandolo al suo destino. Era stato costretto a tornare indietro e soltanto in giugno era riuscito a tornare sul posto con due nuove guide.
La spedizione era quindi entrata in azione. Per alcuni giorni la carovana si era spostata lungo la traiettoria indicata dagli alberi caduti, poi aveva raggiunto un grande anfiteatro in mezzo alle colline e qui era stato collocato il campo base. I giorni successivi Kulik li aveva impegnati a monitorare la zona, arrivando a concludere che quello era il grande cratere, il centro dove si era scatenato l'inferno dell'impatto. Tutto attorno, gli alberi giacevano a terra la punta rivolta verso l’esterno, mentre se n’erano preservati alcuni gruppi incredibilmente rimasti dritti. Proprio nel centro del grande cratere, molti alberi erano rimasti in piedi, anche se spogli e carbonizzati. Adesso l'immensità della devastazione cominciava ad apparire in tutta la sua interezza, se solo si considerava che dalle sponde del fiume al centro del cratere correvano la bellezza di 60 km. In altre parole, l'impatto aveva devastato un'area di foresta superiore a 10.000 km quadrati. Sempre lavorando sull'ipotesi che la catastrofe fosse stata provocata da un gigantesco meteorite, Kulik si era messo a ricercarne i resti, credendo di averne trovata traccia quando si era imbattuto in una serie di cavità piene d'acqua che egli riteneva causate dai frammenti del meteorite esploso nell'impatto. Ma quando alcune di quelle cavità erano state prosciugate si erano rivelate desolatamente vuote. Una presentava sul fondo addirittura dei ceppi d'albero, prova evidente che non poteva essere stata provocata dall'impatto con un blocco meteorico. Kulik era destinato a compiere ben quattro spedizioni nella zona dell'esplosione e fino alla morte rimase convinto che si era trattato di un gigantesco meteorite, anche se non rintracciò mai i frammenti di ferro e roccia che avrebbero in qualche modo confermato la sua teoria. Perché, alla resa dei conti, malgrado i tanti sforzi, Kulik non riuscì a dimostrare che qualcosa aveva impattato il terreno. Si notava il segno di almeno due onde esplosive - quella vera e propria e quella balistica - ma non si poteva riconoscere un cratere impattivo vero e proprio.
Quella nuova evidenza non faceva che rafforzare il già fitto mistero. Da una ricognizione aerea effettuata nel 1938 si rilevò che in verità soltanto 2.000 km quadrati di foresta erano stati abbattuti e che il punto centrale della zona disastrata era chiaramente segnato dalla singolare presenza di alcuni alberi conservatisi misteriosamente in piedi. Questo particolare rispondeva allo schema distruttivo tipico dell'esplosione di una bomba piuttosto che a quello di un meteorite, tipo quello che a Winslow, in Arizona, ha lasciato dietro di sé un cratere profondo più di 200 m. Anche il modo in cui l'oggetto era precipitato sulla Terra era in discussione. Oltre settecento testimoni riferirono che ad un tratto aveva cambiato rotta. La direzione originale, infatti, l'avrebbe portato a precipitare nei pressi del lago Baikal, ma ciò non era avvenuto per via del mutamento di traiettoria. Non esiste alcun corpo celeste in grado di manovrare mentre precipita, né è possibile ai fisici spiegare come potrebbe farlo, pur mettendo in campo tutte le teorie conosciute.
Un altro effetto degno di nota derivato dalla catastrofe è quello esercitato sugli alberi e sugli insetti della zona colpita. Gli alberi che non erano stati abbattuti avevano però interrotto la crescita o, al contrario, si erano sviluppati in modo rapido e anomalo. Studi zoologici hanno rivelato la presenza di nuovi tipi di formiche e insetti, esseri viventi tipici soltanto della regione di Tunguska dopo l'incidente.
Non erano trascorsi che pochi anni da quando il professor Kulik era morto in un campo di concentramento tedesco, che anche i Giapponesi ebbero modo di sperimentare analoghi, ma ancora più terribili, effetti simili a quelli dell'esplosione di Tunguska con la distruzione delle città di Hiroshima e Nagasaki a causa della bomba atomica.
Le conoscenze di cui disponiamo ci aiutano a chiarire in parte il mistero che lauto ha angustiato il povero professor Kulik. La ragione dell'assenza del cratere d'impatto è dovuta al fatto che l'esplosione non è avvenuta a terra ma in aria, proprio come capita con la bomba atomica. La conferma viene dagli alberi mantenutisi eretti proprio nel cuore del cratere. Anche nelle due città giapponesi disintegrate dalle bombe le case direttamente collocate sotto la linea d'arrivo degli ordigni non sono crollate, dal momento che la spinta d'urlo dell'esplosione è radiale, si espande cioè verso l'esterno. Le numerose mutazioni genetiche osservate nella flora e nella fauna giapponese locale sono le stesse constatate in Siberia, mentre le piaghe rintracciate con alta frequenza nei cani selvatici e nelle renne della zona di Tunguska possono oggi essere riconosciute come bruciature prodotte da radiazioni.
Un'esplosione atomica produce forti disturbi nel campo magnetico terrestre e ancora oggi tutto il territorio interessato rivela una situazione di "caos magnetico". Sotto questo profilo, è più che evidente come quel lontano giorno di giugno un vero e proprio cataclisma elettromagnetico si sia scaricato sulla superficie del nostro pianeta, alterando e modificando in modo evidente il naturale campo magnetico terrestre locale.
Le testimonianze oculari che parlano di una grande nuvola, ancora una volta inducono a pensare ad un marchingegno nucleare, anche perché una delle descrizioni ricorrenti era proprio quella di una "grande nuvola a forma di fungo". Sfortunatamente però, il particolare conclusivo che avrebbe definitivamente bollato come veritiera la teoria nucleare non corrisponde: da quando, circa cinquant'anni orsono, sono stati misurati per la prima volta i livelli di radioattività non sono mai andati incontro a mutamenti o variazioni di alcun genere.
Investigazioni successive hanno dimostrato che Kulik si sbagliava nel ritenere i crateri provocati dall'impatto al suolo dei grossi blocchi in cui il meteorite si era frantumato al contatto con la superficie. Non erano stati frammenti rocciosi a crearli, bensì enormi blocchi di ghiaccio che si erano aperti la strada nel terreno e che durante l'estate si erano poi sciolti. L'immensa fatica compiuta dalla spedizione Kulik per svuotare alcune di queste cavità era stata per davvero un'impresa ciclopica quanto del tutto inutile. Sfortunatamente, nessuna fra le molte spedizioni sovietiche - ma anche americane - ha gettato un minimo di luce sulla causa che ha provocato questo immane sconvolgimento. I fautori degli UFO non hanno dubbi nel sostenere che l'oggetto misterioso era in realtà un'astronave aliena, sospinta da energia atomica, sfuggita al controllo dei suoi piloti al momento dell'ingresso nella nostra atmosfera. Qualcuno si è spinto anche oltre, affermando che la vera meta dell'astronave era il lago Baikal dove potersi rifornire di acqua per il raffreddamento dei reattori nucleari; solo che questi si erano surriscaldati troppo e prima di raggiungere le acque del lago erano esplosi.
Ovviamente, gli scienziati respingono ipotesi come queste che ritengono frutto di una fantasia troppo spigliata. Ma quella che segue non è certo da meno. Secondo i professori A. A. Jackson e M.P. Ryan della Università del Texas, la causa della deflagrazione sarebbe stato un piccolo buco nero, una sorta di potente vortice spaziale che scaturisce dal collasso totale delle particelle interne all'atomo. Questo buco nero in miniatura avrebbe trapassato tutta la Terra per uscire dall'estremità opposta. L'ipotesi deve aver impressionato non poco i Russi, se è vero che tra le molte ricerche ne avviarono anche una per verificare se in quel fatidico 1908 erano stati registrati dalla stampa strani fenomeni in territori dall'altra parte del mondo. Non essendo emerso nulla, la spiegazione sul mistero di Tunguska proposta da Jackson e Ryan sembra non reggere.
Altri ricercatori statunitensi chiamano in causa l'antimateria, uno speciale tipo di materia composta da particelle caratterizzate da cariche elettriche contrarie e opposte a quelle che contraddistinguono la materia normale, quella che conosciamo. Al contatto con la materia, l'antimateria esplode e genera un processo di annichilimento, lasciandosi dietro soltanto tracce di radiazioni atomiche. Un'ipotesi interessante, ma solo a livello teorico, dal momento che, al pari della precedente, non esiste una sola, seppur piccola, prova che la corrobori.
Lievemente più accettabile - per quanto, anch'essa, improbabile - risulta invece la teoria di uno studioso inglese, Frank Whipple secondo la quale la Terra si scontrò con una cometa. Ancora oggi gli astronomi non sanno come si formano le comete. Le due principali obiezioni alla ipotesi della cometa sono che non avrebbe potuto scatenare una esplosione nucleare e gli astronomi avrebbero potuto scorgere il suo approssimarsi al pianeta con largo anticipo. I sostenitori di questa visione affermano che una cometa che puntasse dritta verso la Terra in perfetto allineamento col Sole difficilmente sarebbe osservabile e la sua esplosione potrebbe generare effetti simili a quelli determinati dalle tempeste solari, con un'alta produzione di radioattività. Nessuno degli oltre centoventi osservatori astronomici consultati dagli scienziati russi ha però segnalato di avere nei propri archivi qualche registrazione a proposito dell'avvicinarsi di una cometa che potrebbe identificarsi con la "cosa" di Tunguska.
Più recentemente, si è osservato che l'esatto giorno in cui si è verificata la catastrofe era il 30 di giugno. Ogni anno, come gli astronomi ben sanno, proprio in questo giorno l'orbita terrestre viene interessata dall'incrocio con la scia di una cometa detta Beta Taurids, fenomeno che da origine a uno spettacolo di pirotecnica celeste, un vero e proprio "show di meteoriti". Se una di queste, particolarmente grande, superata la barriera d'attrito causata dall'ingresso nell'atmosfera, si fosse schiantata sulla superficie del nostro pianeta, la sua parte esterna miscelandosi con quella interna ghiacciata si sarebbe sciolta istantaneamente per solidificarsi subito dopo in grossi blocchi di durissimo ghiaccio. Se fosse andata per davvero così, ebbene il buon Kulik, dopo tutto, non avrebbe poi tanto sbagliato, anche se, non lo dobbiamo dimenticare, non gli riuscì in alcun modo di mettere insieme neppure uno straccio di prova. A quasi un secolo dall'evento, sembra impossibile che su ciò che accadde a Tunguska continui a persistere un enigma, e che quella immane esplosione sia ancora oggi relegata nel dizionario dei misteri irrisolti.
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