domenica 26 settembre 2010

IL MANOSCRITTO MISTERIOSO DI VOYNICH

IL MANOSCRITTO MISTERIOSO DI VOYNICH
Era il 1912 quando un collezionista di libri rari, Wilfred Voynich, saputo dell'esistenza di un misterioso manoscritto venuto alla luce in un antico baule conservato nella scuola gesuitica di Mondragone a Frascati, era riuscito ad accaparrarselo per un'ingente somma. Si trattava di un volume in ottavo, di circa 18 per 27 cm, composto di 204 pagine. In origine ne aveva altre 28, ma erano andate perdute. Era scritto in cifrato che a prima vista si sarebbe detto la tradizionale, consueta calligrafia medievale. Quasi tutte le pagine erano come ricamate da lievi piccoli disegni di corpi nudi femminili, diagrammi astronomici e ogni genere e tipo di pianta a più colori.
Era il 1912 quando un collezionista di libri rari, Wilfred Voynich, saputo dell'esistenza di un misterioso manoscritto venuto alla luce in un antico baule conservato nella scuola gesuitica di Mondragone a Frascati, era riuscito ad accaparrarselo per un'ingente somma. Si trattava di un volume in ottavo, di circa 18 per 27 cm, composto di 204 pagine. In origine ne aveva altre 28, ma erano andate perdute. Era scritto in cifrato che a prima vista si sarebbe detto la tradizionale, consueta calligrafia medievale. Quasi tutte le pagine erano come ricamate da lievi piccoli disegni di corpi nudi femminili, diagrammi astronomici e ogni genere e tipo di pianta a più colori.
Il manoscritto era accompagnato da una lettera, datata 19 agosto 1666, scritta da Joannes Marco Marci, rettore dell'Università di Praga. La lettera era indirizzata al celebre gesuita e studioso Athanasius Kircher - oggi ricordato soprattutto per gli studi sull'ipnosi - e si denunciava che il libro era stato acquistato per 600 ducati dall'imperatore del Sacro Romano Impero, Rodolfo II di Praga. Kircher era un esperto di crittografia, avendo dato alle stampe un testo sull'argomento datato 1663, in cui annunciava al mondo di essere riuscito a decifrare i misteriosi geroglifici egiziani. La cosa ci induce a ritenere il personaggio un tipo un po' troppo fantasioso, se è vero, come sappiamo, che la loro decifrazione avvenne soltanto un secolo e mezzo dopo per opera dello Champollion. Da quel che pare, Kircher si era messo al lavoro per la decodifica di qualche pagina, su invito del precedente proprietario, che diceva di aver praticamente dedicato l'intera sua vita nell'inutile operazione. Ora, gli faceva pervenire tutto il resto del volume.
Non sappiamo per quali vie il manoscritto era approdato a Praga, ma la possibilità più accreditata è che vi venisse portato dall'Inghilterra su iniziativa del famoso mago di corte della regina Elisabetta, il dottore mirabile John Dee, che aveva visitato Praga nel 1584. Secondo alcuni, Dee avrebbe ottenuto il manoscritto dal duca di Northumberland, che aveva saccheggiato e depredato i monasteri inglesi su preciso ordine del re Enrico VIII. Più tardi, lo scrittore inglese Sir Thomas Browne riferisce che il figlio di Dee parlava di «un libro che non conteneva null'altro che geroglifici», che lui aveva esaminato e studiato a Praga. Per Marci, invece, il misterioso volume era frutto del lavoro esoterico di un altro grande, il monaco e scienziato del XIII secolo Ruggero Bacone.
Il manoscritto Voynich (come lo si chiama oggi) costituisce davvero un bel mistero proprio perché sembra fin troppo chiaro: con tutti quei disegni di piante e vegetali, a prima vista si direbbe infatti un "erbario", un libro che insegna ad estrarre succhi e pozioni benefiche dalle piante. D'altra parte è normale aspettarsi dei diagrammi e delle tavole astronomiche e zodiacali in un erbario, perché molte piante andavano raccolte con la Luna piena o quando stelle e pianeti si trovavano in una data, precisa collocazione celeste.
Neppure Kircher aveva avuto successo nella decrittazione e alla fine, arresosi, lo aveva consegnato al collegio gesuita di Roma, da dove era poi transitato nelle mani dei Gesuiti di Frascati.
Da parte sua, Voynich era certo che il manoscritto non avrebbe continuato a restare un enigma, una volta che altri studiosi avessero avuto l'opportunità di visionarlo. Così aveva distribuito copie dell'originale a tutti gli interessati. Il primo grosso nodo da sciogliere era riuscire a riconoscere la lingua in cui era scritto: latino, inglese medievale, forse persino lingua d'Oc. La cosa non sembrava impossibile, dal momento che i disegni delle piante erano titolati, sebbene con scritte in codice. Ma molti nomi erano immaginari. Lo stesso per le costellazioni: potevano essere riconosciute fra quelle presenti nel firmamento, ma questa volta era il loro nome che non si poteva dedurre. Gli specialisti in decifrazione si impegnarono a fondo, applicando i più diffusi metodi di decrittazione arrivando a dedurre 29 diverse singole lettere o simboli, ciò nonostante ogni tentativo di tradurre il testo in una lingua conosciuta era fallito. Ma ciò che più di ogni cosa indispettiva gli studiosi stava nel fatto che, per quanto strano, il testo non sembrava affatto scritto seguendo la chiave di un codice, ma come se l'autore lo avesse scritto in piena scioltezza, come chi scrive nella propria lingua madre. Molti analisti, filologi, studiosi, linguisti, astronomi, profondi conoscitori dei metodi baconiani si offrirono; persino la Biblioteca vaticana mise a disposizione i suoi uffici e i suoi libri pur di arrivare a una conclusione. Invano. Il misterioso manoscritto continuò a rifiutarsi di svelare il suo segreto o, forse è meglio dire, i suoi segreti.
Poi nel 1921 un professore di filosofia dell'Università della Pennsylvania, William Romaine Newbold, annunciò che alla fine ce l'aveva fatta a svelare il codice segreto del libro. Lo avrebbe annunciato nel corso di un incontro da tenersi a Philadelphia nell'ambito della Società americana di filosofia. La prima cosa che aveva attuato era stato far corrispondere a ciascun simbolo una lettera dell'alfabeto romano, riducendo il gruppo da 29 a 17 unità. Utilizzando il vocabolo latino conmuto (o commuto, che significa permuto) come parola chiave era riuscito a ricavare più di quattro versioni del testo, di cui l'ultima, quella giusta, derivata direttamente da vocaboli latini e da loro anagrammi. A questo punto era bastato ricomporre il tutto per ottenere uno straordinario manoscritto scientifico, attestante che Bacone era un genio incomparabile.
La cosa, d'altra parte, è nota. Era stato proprio Bacone, in un passo del suo Opus maius, a instillare in Colombo l'idea che le Indie si sarebbero potute raggiungere salpando dalla Spagna e veleggiando verso occidente. In giorni improntati allo studio di rigide discipline quali l'alchimia e dogmatiche scienze così come erano state impostate dal grande Aristotele, Bacone aveva invece difeso una conoscenza nuova, basata sull’esperimento e sull'osservazione e per questo era stato incarcerato. Perché rigettando l'autorità aristotelica egli rinnegava anche quella della Chiesa. Nel suo La città di Dio Agostino già aveva avvisato l'umanità di stare attenta alle insidie della scienza e dell'intelletto, primi impedimenti verso la salvezza. Ruggero Bacone, al pari del suo omonimo elisabettiano Francesco, si rendeva ben conto che un simile atteggiamento significava il suicido dell'intelletto; tuttavia, ciò malgrado, si deve lo stesso riconoscere che essendo anche figlio del suo tempo, Opus maius è un'opera colma di pregiudizi e grossolani errori e superstizioni.
Ma, se Newbold ha ragione, Bacone fu uno dei più straordinari scienziati prima di Newton. Era solito usare un microscopio da lui costruito per osservare cellule e spermatozoi - a questo si riferivano i disegni di animaletti simili a girini sui margini del libro - e realizzò un telescopio molto prima di Galileo, scoprendo che la nebulosa di Andromeda era una galassia a forma di spirale. Newbold presenta un'osservazione di Bacone che attribuisce proprio alla descrizione di questo corpo celeste: In uno specchio concavo ho potuto osservare una stella a forma di chiocciola, fra la nave di Pegaso, la corona di Andromeda e la testa di Cassiopea. (È noto che Bacone ben conosceva l'utilizzo della lente concava come specchio ustorio). Sempre Newbold dichiara che non aveva la minima idea in merito a ciò che avrebbe osservato puntando un telescopio in quella direzione. Grande era dunque stata la sua sorpresa nel constatare che la "chiocciola" altro non era che la nebulosa di Andromeda.
Il primo a mettere in risalto alcuni dei punti deboli del metodo proposto da Newbold, è stato David Kahn, esperto crittografo, nel suo libro dal titolo The Codebreakers. Il metodo consiste nel "raddoppio" delle lettere componenti una parola. Così, per esempio, "oritur" diventa or-ri-it-tu-ur. La soluzione del testo avviene con l'ausilio della parola chiave "conmuto" e con l'aggiunta della lettera "q". Ma come avveniva il processo contrario, vale a dire, quando Bacone trasferiva il testo originale nel cifrato? Kahn afferma: «Molti codici univoci, a un solo indirizzo, sono stati mal interpretati; è certamente possibile cifrare dei messaggi, ma è pressoché impossibile decrittarli. Newbold sembra l'unico caso conosciuto in cui la situazione si presenta esattamente al contrario».
Newbold morì nel 1926, a soli sessant'anni. Due anni dopo, il suo amico Roland G. Kent diede alla stampa il risultato delle sue ricerche in un libro intitolato The Cipher of Roger Bacon, un testo ampiamente accettato da illustri studiosi, fra cui, per esempio, Étienne Gilson.
Ma c'era un allievo che, proprio perché aveva approfondito all'estremo lo studio del sistema applicato da Newbold, non se ne dichiarava soddisfatto. Era il dottor John M. Manly, filologo capo dell'istituto di lingua inglese presso l'Università di Chicago, destinato a diventare assistente del grande Herbert Osborne Yardley - celebrato come il massimo esperto in decodifica di tutti i tempi - quando nel 1917 il servizio segreto degli Stati Uniti decise di aprire un dipartimento appositamente dedicato alla decrittazione di codici segreti. Manly aveva dato alle stampe gli otto volumi della edizione definitiva dell’opera di Chaucer, mettendo a confronto non meno di ottanta versioni del manoscritto medievale dei Racconti di Canterbury. Una delle conquiste più eclatanti e prestigiose della sua carriera era stata la decifrazione di una lettera in codice trovata all'interno del bagaglio di una spia tedesca che si faceva chiamare Lothar Witzke, catturata a Nogales, in Messico, nel 1918. Nel corso di tre giorni di full immersion, Manly era riuscito a risolvere le dodici trasposizioni cifrate, attraverso uno slittamento multiplo in scala orizzontale di gruppi di tre e quattro lettere, finalmente disposti nella versione finale secondo una disposizione verticale. Davanti alla corte marziale, Manly era stato in grado di leggere a voce alta il messaggio cifrato, inviato alla spia dal ministro Tedesco in Messico: «Il latore di questo messaggio è un membro dell'impero e si muove sotto le mentite spoglie di un cittadino russo di nome Pablo Waberski. In realtà si tratta di un agente segreto tedesco...». Questo fatto fu la prova schiacciante della sua colpevolezza. L'uomo era stato condannato a morte, anche se poi la pena era stata commutata nel carcere a vita da un gesto di magnanimità del presidente americano Wilson.
Ora Manly si era dedicato all'analisi del libro di Newbold e del suo metodo, giungendo a concludere che l'autore si era in pratica autoingannato. L'anello debole di tutto il complicato sistema di decifrazione consisteva nel processo di anagramma. Molte frasi, infatti, potevano essere anagrammate in dozzine di altre frasi tutte diverse fra loro, un metodo tipico di Bacone, tanto che molti suoi sostenitori si facevano forti di questa sua caratteristica per indicare in lui il vero autore delle opere attribuite a Shakespeare. Per una frase che contempli anche soltanto un centinaio di lettere, non esiste in pratica un metodo assoluto che garantisca che solo e soltanto quel dato aggiustamento anagrammatico sia quello corretto, l'unica soluzione. In merito, Kahn propone il semplice esempio delle parole "Ave Maria, piena di grazia, il Signore è con te", anagrammabili in almeno un migliaio di altre frasi e versioni tutte diverse.
Inoltre Newbold aveva classificato alcuni "tratti calligrafici abbreviati" come segni di base per il suo sistema interpretativo. Quando Manly li aveva osservati con l'ausilio di una potente lente di ingrandimento si era invece reso conto della loro vera natura: niente di più che semplici impuntature della penna che si era come incastrata nella pergamena lasciandosi dietro lettere e segni incompleti. Insomma, i casi in cui Newbold veniva colto in plateale errore erano così numerosi da poter tranquillamente asserire che Manly aveva demolito sin dalle fondamenta la sua ipotesi di decifrazione del codice criptato adottato da Ruggero Bacone nel misterioso manoscritto.
Da quell'anno in avanti - siamo nel 1931 - ci furono molteplici altri tentativi di decodifica. Nel 1933 un medico esperto nello studio dei tumori, il dottor Leonell C. Strong, pubblicò alcuni frammenti di traduzione, rivelando con sua grande soddisfazione che il testo altro non era che un erbario scritto da uno studioso inglese, certo Anthony Ascham. Fra le altre rivelazioni, Strong svelò anche una ricetta contraccettiva che sembrava funzionare assai bene. Ciò che però Strong non riuscì mai a chiarire compiutamente fu il sistema seguito per giungere alla comprensione del testo e così la sua proposta non venne in pratica tenuta in conto da nessuno.
Poi era stata la volta di William F. Friedman, il quale negli ultimi anni della seconda guerra mondiale aveva dato corpo a un gruppo di studiosi dedito all'analisi del manoscritto. La fine del conflitto aveva fatto sciogliere il gruppo e non si era approdati a nulla. Ma Friedman aveva lo stesso fatto osservare come il manoscritto Voynich differisca da tutti gli altri scritti in codice per un sostanziale, importante aspetto. Di norma, una delle prime regole messe in atto dall'inventore di un codice segreto è quella di evitare le ripetizioni che sono appigli di facile individuazione e che consentono a chi si appresta alla decifrazione di avere alleati seminati nel testo (per esempio, il gruppo reiterato di tre lettere, nella lingua inglese, potrebbe facilmente essere decifrato come "and" e "thè"). Ebbene, il manoscritto Voynich presenta una grande abbondanza di ripetizioni, molte di più di un testo cifrato classico. Questa osservazione portò Friedman a immaginarlo come scritto in un linguaggio artificiale che, per il semplice motivo della chiarezza, non può fare a meno di utilizzare le ripetizioni, a differenza di un linguaggio naturale complesso. La cosa però presuppone che Ruggero Bacone (o chi scrisse il manoscritto) desiderasse così ardentemente velare il significato delle sue parole da mettere in atto una strategia estremamente sofisticata, tanto da essere considerata inaccessibile persino dai grandi esperti di messaggi in codice. E tutto questo per un monaco del XIII secolo, che non si vede perché necessitasse di utilizzare chissà quale codice occulto, ci pare veramente cosa improbabile...
Ma sta qui, proprio in questo, la vera e profonda chiave dell'arcano. Noi oggi ancora non sappiamo perché il manoscritto venne redatto, da chi e in quale linguaggio, ma quand'anche venissimo a capo di questi interrogativi, continueremmo a non vedere una buona ragione di tanta fatica per l'invenzione di un codice assolutamente impenetrabile. I primi testi criptati sono conservati nella Biblioteca vaticana e risalgono al 1326 (quando Ruggero era un bambino) e raccolgono molto semplicemente soltanto dei nomi in codice di personaggi legati ai partiti politici dei Ghibellini e dei Guelfi, rispettivamente sostenitori della causa imperiale e papale. Nel testo i Ghibellini erano detti gli Egiziani, mentre i Guelfi erano i Figli di Israele. (Facile, con queste premesse, indovinare da che parte stava il redattore del codice!). Le prime "sostituzioni" cifrate, occidentali moderne iniziano a far data dal 1401. Il primo trattato di codici segreti, il Poligraphia di Giovanni Tritemio, fu pubblicato soltanto nel 1518, due anni dopo la morte dell'autore. Per questo diventa difficile immaginare che Ruggero Bacone o qualsiasi altro inventore nel secolo immediatamente successivo alla sua scomparsa si sia potuto sobbarcare un rovello mentale così straordinario da creare un codice tanto sofisticato da non essere stato decifrato neppure ai nostri giorni. Kahn prova a immaginare perché l'ipotetico redattore del misterioso erbario (ciò che, in definitiva, parrebbe essere a prima vista il manoscritto Voynich) ci tenesse tanto a nascondere il suo lavoro, ricordando il più antico caso di occultamento che la storia ricordi, ossia quello rinvenuto su una tavoletta di argilla impressa con caratteri cuneiformi e databile attorno al 1500 a.C.: «La tavoletta contiene la prima formula a noi nota per la smaltatura della ceramica. L'ignoto scriba, geloso della sua straordinaria scoperta, utilizza i segni cuneiformi... nella loro accezione meno comune». Possiamo quindi immaginare che l'autore del manoscritto Voynich fosse un abile erborista desideroso di fermare sulla carta, per sé e per i suoi allievi, le ricette messe a punto con tanta applicazione e fatica, nella - in questo caso più fondata che mai - speranti di evitare che divenissero preda di qualche concorrente.
E’ stata forse questa la molla che ha spinto l'antiquario, esperto di libri, Hans Kraus a entrare nella storia dei manoscritto. Quando nel 1960, alla venerabile età di novantasei anni, Ethel Voynich morì, Kraus fece di tutto per entrare in possesso del manoscritto dagli eredi, per poi metterlo all'asta per la bellezza di 160.000 sterline. La promessa caldeggiata era che chi fosse riuscito a decifrare il misterioso testo avrebbe certamente scoperto informazioni che avrebbero scritto una nuova pagina della storia dell'uomo. Insomma, un'opera che una volta decodificata avrebbe visto il suo valore salire alle stelle. Ma non si era fatto avanti nessuno e così alla fine, nel 1969, Kraus pensò bene di donare il libro alla Università di Yale dove tuttora si trova, in attesa che qualche ispirato decifratore possa trovarne la chiave interpretativa.

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