domenica 26 settembre 2010

LA MALEDIZIONE DEI FARAONI

LA MALEDIZIONE DEI FARAONI
Il 26 novembre del 1922 l'archeologo Howard Carter, tenendo una candela tra le mani tremanti per l'emozione, penetrava attraverso una piccola apertura ricavata nella porta nella tomba di Tutankhamon.
Ciò che vide lo lasciò sconcertato: «Ovunque, il luccichio dell'oro». Il collega Lord Carnarvon e lui, avevano fatto la più straordinaria scoperta della storia dell'archeologia.
Qualche giorno dopo venne rintracciata una tavoletta di creta con una iscrizione geroglifica che minacciava: «Possa la morte rapire con le sue tetre ali chiunque osi disturbare il sonno del faraone».
Nell'aprile successivo, Lord Carnarvon moriva di una malattia non identificata. Nel 1929 a soli sette anni dalla scoperta - ben ventidue persone a vario titolo coinvolte nella clamorosa vicenda archeologica erano morte prematuramente. «La maledizione del faraone» incominciarono a titolare i giornali, a caccia del sensazionale, mentre gli archeologi ovviamente negavano. Tuttavia, è per lo meno singolare immaginare che una così lunga e luttuosa catena di eventi costituisca soltanto una semplice coincidenza. Tutankhamon era figlio del "grande eretico" Akhenaton (ca. 1375-1360 a.C.), il primo sovrano monoteista della storia. Egli, abbandonata la vecchia capitale Tebe e tutti i suoi templi, ne aveva fondata una nuova che aveva chiamato Akhetaton (l'orizzonte di Aton), innalzandola in una località oggi chiamata Tell el Amarna. Akhenaton adorava un solo dio, Aton, il Sole. Ma la sua gente, che si sentiva più a suo agio nell’adorare cose concrete come le immagini delle antiche divinità animali, non amava questa nuova forma di religione e dunque non spiacque a nessuno quando Akhenaton morì in giovane età, forse assassinato (vatti a fidare dei sacerdoti!). Al trono salì il figlio Tutankhamon, all'epoca poco più di un fanciullo, ucciso con un colpo alla testa all'età di soli diciotto anni. Dal punto di vista storico, pertanto, il povero Tutankhamon non ha alcun rilievo, non è certo un faraone da ricordare. L'unica cosa che sappiamo del suo breve regno è che restaurò l'antico culto, riportando la capitale a Tebe. Non si sa come morì, se per una caduta accidentale oppure per mano di un assassino. Ma la parte più strana della storia deve ancora venire. Il capo dei sacerdoti (una sorta di ciambellano reale) si chiamava Ay. Alla morte del giovane, sposata la quindicenne vedova Enhosnamon, era salito al potere. Dopo soli quattro anni un altro usurpatore, il generale Horemheb, aveva cinto la corona di faraone. Alla morte di Tutankhamon era stato anticipato da Ay e la cosa lo aveva colmato di risentimento e di odio. Appena divenuto faraone prese a comportarsi come un dittatore. Come prima cosa diede ordine di cancellare da ogni monumento e scrittura il ricordo di Akhenaton e Tutankhamon e utilizzò il materiale che era servito per la costruzione del grande tempio solare di Tell el Amarna per innalzare tre piramidi nella città di Tebe. Persino i cortigiani che erano stati fedeli ad Ay e a Tutankhamon ebbero le loro tombe profanate e distrutte dal nuovo, terribile faraone. Peccato che Horemheb dimenticasse di fare la cosa più logica: distruggere la tomba di Tutankhamon, rilevando, fra l'altro, il suo straordinario contenuto di tesori. Come mai accadde questo? La prima ipotesi è che il sito della tomba fosse a tutti sconosciuto. Ma, a ben pensarci, sembra improbabile. Dopo tutto, Horemheb era salilo al trono solamente quattro anni dopo la morte di Tutankhamon e quand'anche, in principio, la collocazione della tomba fosse stata segreta, chissà quanti fra sacerdoti e costruttori ancora in vita avrebbero potuto, diciamo così, essere "convinti" a rivelarne il sito. Viene spontaneo sospettare che Horemheb non si sia mosso, lasciandola inviolata, per qualche altro grave motivo... Howard Carter, l'uomo che alla fine era riuscito a rintracciare la tomba, era arrivato in Egitto da giovane - era nato nel 1873 - e ancora nei suoi vent'anni era diventato capo ispettore dei monumenti per l'Alto Egitto e la Nubia. Entrando in azione su suo suggerimento, nel 1902 un facoltoso americano di nome Theodore Davis, finanziò una serie di scavi nella Valle dei Re. L'anno prima i violatori di tombe, organizzati in bande, avevano attaccato armati le sentinelle che sorvegliavano l'accesso all'appena scoperta tomba di Amenhotep II - faraone assetato di sangue, bisnonno di Akhenaton - riuscendo a portar via tutto l'oro e i gioielli. Carter, per niente impaurito, si era messo sulle loro tracce e li aveva fatti catturare, guadagnandosi una pessima fama presso i nativi. In breve, si era così trovato a spasso, vale a dire senza più un lavoro. Theodore Davis lo aveva ingaggiato come disegnatore e grazie a lui era riuscito a cogliere alcune interessanti scoperte, fra cui i sepolcri di Horemheb, della grande regina Hatshepsut e del nonno di Akhenaton, Thutmose IV. Durante questo periodo accadde un fatto singolare relativo alla storia della maledizione del faraone. Joe Linden Smith, un altro esperto disegnatore abituato a lavorare sul campo con gli scavatori, aveva una moglie ventottenne molto carina, di nome Corinna. Fra i loro amici più intimi c'erano Arthur e Hortense Weigel. Lui era un archeologo inglese, lei, come Corinna, una giovane americana. Un giorno, mentre stavano discendendo nella Valle delle Regine, Smith e Weigel avevano notato un anfiteatro naturale che nella loro immaginazione si sarebbe prestato a meraviglia per la rappresentazione di un'opera teatrale. Decisero, sul momento, di rappresentare il "mistero della loro commedia" e di invitare la comunità archeologica di Luxor. Ma la finalità non consisteva soltanto nel puro intrattenimento. I due condividevano una profonda ammirazione per Akhenaton e per la produzione artistica sviluppatasi sotto il suo regno, molto più vicina alla rappresentazione della natura che non l'arte eccessivamente stilizzata caratteristica di altri periodi. Lo scopo primario di quella messa in scena voleva dunque essere una sorta di invocazione agli dèi affinché sollevassero lo spirito del povero Akhenaton dalla terribile maledizione che lo aveva condannato per l'eternità. Stando alla tradizione, il faraone Akhenaton era morto il 26 gennaio dell'anno 1363 a.C. Smith e Weigel decisero di rappresentare il loro lavoro teatrale il 26 gennaio del 1909 e per quella data diramarono gli inviti. Il 23 gennaio era il giorno della prova definitiva. Il dio Horus - interpretato da Hortense - appariva come per magia e si metteva a parlare con lo spirito errante di Akhenaton, promettendogli di esaudire un suo desiderio. Lo spirito prontamente rispondeva di voler rivedere la madre Tiy. Convocata con un rito cerimoniale, Tiy compariva sulla scena per raccontare tutta la sua tristezza nel vedere l'anima dell'adorato figlio condannata alla solitudine eterna. Akhenaton rispondeva che anche in quella sua miseranda condizione gli era di conforto il pensiero dell'unico e solo dio, Aton, e sollecitava la madre a intonare un inno in onore del dio... Ma non appena Corinna aveva iniziato a recitare la preghiera votiva, si era levato un vento così forte da coprire la sua pur stentorea voce. Poi era scoppiato un temporale che aveva spazzato sabbia e pietre con una tale violenza da terrorizzare i lavoranti egizi, convinti che gli dèi stessero sfogando la loro ira contro chi aveva osato parodiarne la vita. La prova era stata sospesa e gli improvvisati attori erano stati costretti a riparare nel campo base, ricavato nella tomba di Amet-Hu, uno dei potenti governatori di Tebe. Nella notte, Corinna aveva incominciato a lamentarsi per un forte bruciore agli occhi, mentre Hortense era stata disturbata da crampi allo stomaco. Ambedue furono visitate dallo stesso sogno. Si trovano nel vicino tempio di Amon, al cospetto della statua del dio, il quale, per prodigio, si era fatto vivente e con un colpo del suo flagello aveva colpito gli occhi dell'una e il petto dell'altra, all'altezza dello stomaco. La mattina Corinna, più che mai sofferente, si era fatta ricoverare all'ospedale del Cairo, dove l'oculista che l'aveva visitata le aveva diagnosticato il tracoma più infettivo - la cosiddetta oftalmia d'Egitto - che mai gli fosse capitato di incontrare. Ventiquattro ore dopo, era stata Hortense a essere sottoposta ad un difficile intervento chirurgico allo stomaco, nel corso del quale si era trovata in pericolo di vita. Naturalmente, la rappresentazione non aveva più avuto luogo. Sia Carter che Carnarvon erano stati invitati. In quel momento Carter lavorava al servizio di Davis. Ma a partire dal 1914 Davis cambiò idea. Convinto di aver sottratto alla sabbia del deserto tutto ciò che si poteva e di aver perlustrato la Valle dei Re come meglio non si sarebbe potuto fare, decise di abbandonare le ricerche e gli scavi. Carnarvon rilevò la sua concessione. Sapeva che Davis era convinto di aver già rintracciato la tomba di Tutankhamon in una sepoltura a pozzo all'interno della quale erano venuti alla luce piatti dorati e alcuni altri oggetti preziosi; ma, sia lui che Carter, la pensavano diversamente ed erano certi che il corredo funebre di un faraone, per quanto giovane, non poteva limitarsi a così poco. Il sopraggiungere della guerra ritardò l'inizio degli scavi fino al 1917. Avuto il via, Carter aveva dunque iniziato a scavare, con precisione e certosina meticolosità, rimovendo tonnellate e tonnellate di detriti e di sabbia smosse anche dalle precedenti ricerche. Nel 1922 Carter pensò di aver già profuso troppo danaro nell'impresa, e che la Valle dei Re non avrebbe offerto più nulla di interessante. Ma Carter aveva insistito, chiedendo ancora un'ultima possibilità. Così il 1° novembre del 1922 aveva dato il via a un nuovo scavo, tracciando un fossato in direzione sud rispetto alla tomba di Ramesse IV. Il 4 novembre gli scavatori rinvennero un gradino, appena sotto il livello delle fondamenta di alcune capanne che lo stesso Carter aveva portato alla luce il precedente aprile. Prima di sera erano dodici i gradini dissepolti, una scalinata che conduceva a una porta di pietra sigillata. A questo punto Carter aveva dato ordine di fermare i lavori e aveva immediatamente messo Carnarvon in allarme, contattandolo in Inghilterra. Dopo due settimane il compagno e socio era di nuovo in terra d'Egitto. Insieme, i due si erano fatti strada attraverso la soglia d'ingresso, in un'atmosfera di eccitazione via via crescente, avendo intuito che stavano penetrando in un sepolcro conservatosi integro e inviolato. A circa nove metri dalla prima porta ne avevano incontrata un'altra. Con mani tremanti, Carter aveva ricavato una piccola frattura nell'angolo in alto della lastra e aveva cercato di lanciare uno sguardo al di là. La flebile luce della torcia gli fece intravedere le sagome di strani animali, statue dorate, monili, oggetti. E poi un carro, figure in dimensione naturale, lettucci dorati e intarsiati, addirittura un trono reale tutto d'oro. Ma non c'erano mummie, dal momento che, come si scoprì dopo, questa era soltanto l'anticamera tombale. Fu però in questa stanza che venne rintracciata la tavoletta con il già citato, terribile monito: «Possa la morte rapire con le sue tetre ali chiunque osi disturbare il sonno del faraone». Dopo essere stata decifrata da Carter, purtroppo, la tavoletta era sparita: serpeggiavano già dicerie in merito fra i superstiziosi scavatori locali. Come se non bastasse, anche su una statua del dio Horus si leggeva una cosa simile, un severo avvertimento che annunciava nel dio il sommo protettore della tomba. Il 17 febbraio 1923 un folto gruppo di personalità eminenti venne invitato ad assistere in diretta all'apertura del sito funebre. Ci vollero due ore per aprire un passaggio sufficiente da permettere a un uomo di infilarsi nella camera sepolcrale. A questo punto soltanto un lieve diaframma di pietra divideva gli scopritori dal più straordinario e stupefacente sarcofago che il mondo abbia mai conosciuto. Decisero di rimandare le ulteriori operazioni ad altra data, forse ipnotizzati dalle già grandi meraviglie che avevano scoperto. E così Carnarvon non riuscì a vederlo. In aprile cadde ammalato. Svegliatosi un mattino, scottava come una stufa. Una misteriosa febbre a 40° lo aveva assalito per continuare a angustiarlo per venti giorni. I medici parlarono subito di infezione. Forse, radendosi, si era procurato una ferita che la sabbia del deserto aveva infettato, oppure era stato punto da qualche insetto. Andarono a chiamare Carter, ma alle due del mattino l'amico e collega era morto. Quando la famiglia era giunta al capezzale, convocata d'urgenza da un'infermiera, all'improvviso tutte le luci si erano spente ed era stato necessario accendere candele e torce. Poi la corrente era tornata e il giorno seguente si era saputo che l'incidente era stato provocato da un black-out che aveva messo al buio l'intera città del Cairo. In alcune versioni del racconto della dipartita di Carnarvon si dice che, in realtà, non si seppe mai perché fosse mancata la luce proprio in quel preciso momento; tuttavia, nessuno si è mai preso la briga di investigare presso l'azienda elettrica della capitale per approfondire l'inchiesta. Stando alla testimonianza del figlio di Carnarvon, quella sera era accaduto anche un altro fatto strano, a migliaia di chilometri di distanza: mentre il suo padrone moriva in terra d'Egitto, in Inghilterra il cane di Carnarvon, dopo aver a lungo guaito e ululato, si era accasciato morto al suolo. I giornali non aspettavano altro. Partirono nuovamente alla carica con la storia della "maledizione del faraone". Parte della colpa di tutto questo scalpore era però da addebitare al povero Carnarvon. Egli aveva infatti ceduto i diritti di esclusiva sui resoconti delle sue straordinarie scoperte archeologiche al giornale londinese «Times», unico organo di stampa aggiornato. Tutti gli altri, privi di notizie chiare e attendibili, erano stati costretti a inventare i reportage, andando a nozze ogni qualvolta la realtà dava adito di ricamare alla fantasia dei cronisti. Ma non c'era proprio bisogno di inventarsi niente, perché la "maledizione" continuava ad offrire spunti a dir poco agghiaccianti. Poco dopo la morte di Carnarvon, Arthur Mace, l'archeologo americano attivo nell'apertura della tomba, cadde in uno stato di prostrazione fisica e psicologica che lo portò alla fine. George Jay Gould, il figlio del famoso finanziere americano, venuto in Egitto dopo la scomparsa di Carnavorn, su invito di Carter si era recato a visitare la splendida tomba. Il giorno dopo si era svegliato febbricitante e nella notte se n'era già andato. Stessa sorte per Joel Wool, un imprenditore inglese, il quale, visitata la tomba, era morto per una febbre misteriosa mentre stava rientrando in Inghilterra. Una fine condivisa, nel 1924, dal dottor Archibald Douglas Reid, un biologo inglese che aveva sottoposto la mummia di Tutankhamon ai raggi X, stroncato da una debolezza inspiegabile appena rientrato in patria. Insomma, nel breve volgere di qualche mese, almeno dodici persone coinvolte in qualche modo con l'apertura o lo studio della tomba morirono. Col 1929 il numero era salito a venti. In questo stesso anno morì Carter, ufficialmente ucciso dalla puntura di un insetto, mentre il suo segretario personale, Richard Bethell, lo seguì a breve, schiantato da un collasso nel letto di casa. Nel 1925 li aveva preceduti, stroncato da un infarto, il professor Douglas Derry, uno degli scienziati che avevano eseguito l'autopsia della mummia di Tutankhamon. Un altro degli eminenti studiosi, il professor Alfred Lucas gli aveva fatto compagnia, per la stessa causa apparente, ad appena qualche settimana di distanza. Nel suo libro “La maledizione dei faraoni” lo scrittore Philip Vandenberg non elenca soltanto le morti sospette da collegare in modo diretto alla scoperta della tomba di Tutankhamon, ma ricorda ai lettore il gran numero di studiosi, appassionati ed egittologi morti prematuramente. Egli pone in risalto come molte volte la morte sia annunciata da una prostrazione, una sorta di esaurimento energetico - lo stesso Carter soffriva di questa forma di debilitazione, unita a una forte depressione - e si chiede se gli antichi sacerdoti egizi non conoscessero veleni o spore di funghi velenosi, in grado di conservare il loro carico mortale nel corso dei secoli, con i quali proteggere le tombe dagli intrusi non graditi. Fra le tante morti ritenute sospette e premature, si elenca Francois Champollion, il decodificatore della Stele di Rosetta; il grande egittologo italiano Belzoni; il dottore di origine sveva Theodore Bilharz (da cui il nome del disturbo noto come bilharzia); l'archeologo Georg Mòller e il più stretto collaboratore di Carter, il professor James Henry Breasted. Era stato proprio Breasted a riferire che Carter era stato assalito dalla febbre dopo essere sceso nella tomba, e a tratteggiare un quadro clinico dell'amico e collega decisamente angosciante: incapacità di concentrazione, '"assenza" psicologica improvvisa, estrema difficoltà nell’assumere una qualsivoglia decisione. Carter morì a 66 anni; il libro di Vandenberg prende le mosse da una conversazione fra lui e il dottor Gamal Mehrez, direttore generale del Dipartimento delle Antichità del Museo del Cairo. Mehrez, un uomo di 52 anni, esprime con fermezza il suo scetticismo a proposito della maledizione: «Mi guardi. Sono coinvolto con storie di faraoni e mummie praticamente da quando sono nato. E non mi è ancora successo niente. Sono la prova vivente che si tratta solo e soltanto di mere coincidenze». Non l'avesse mai detto! Quattro mesi dopo veniva stroncato da un attacco cardiaco. Anche se lo stesso Vandenberg dichiara improbabile l'ipotesi delle coincidenze, quando tenta di offrire una spiegazione "scientifica" dei fatti non riesce a proporre niente di convincente; arriva anche al punto di accettare l'idea che la causa possa essere la particolare forma delle piramidi, in grado di catturare energia cosmica negativa per il corpo umano e che «gli Egiziani sapevano come influire sul processo di decadimento radioattivo». Crediamo che gli stessi antichi, se fossero presenti, sarebbero i primi a negare queste assurdità. Per loro una maledizione si sprigionava da un rito magico, capace di evocare e ridestare uno spirito o demone guardiano, concetti sopravvissuti fino ai nostri giorni. Il ricercatore psichico Guy Lyon Playfair racconta nei suoi libri gli anni trascorsi in Brasile e descrive le lunghe ricerche per investigare su fenomeni di persecuzione da "poltergeist" che sembravano scaturire come risultato di una maledizione, in altre parole, da un'azione che potremmo definire di "magia nera". Sono molti gli investigatori inclini a ritenere il poltergeist - letteralmente "spirito burlone" - una manifestazione inconsapevole della mente di un adolescente non ancora "equilibrato", capace di far volare gli oggetti in modo naturale tramite una "psicocinesi spontanea". Anche se Playfair accetta questa soluzione per la maggior parte dei casi, in alcuni altri sembra lasciare intendere che il poltergeist sia innescato dall'effettiva azione disturbante di "spiriti" disincarnati. Queste entità, blandite con appositi rituali magici, possono essere "convinte" a perseguitare una persona o a provocare disturbi inquietanti nella sua casa. Quando questo accade, entra allora in scena un altro specialista, il candomblé (parola ereditata dal culto magico della tradizione africana), il quale ha il compito di scacciare lo spirito e di riportare la tranquillità. Concetti, questi, legati agli spiriti utilizzati per compiere azioni infestanti, antichi come l'uomo e che sostengono la tradizione magica da secoli. Un altro ricercatore d'oggi, Max Freedom Long, ha studiato a lungo la religione degli Huna, un popolo delle Hawai, convincendosi che gli sciamani -conosciuti come kahunas - erano capaci per davvero di provocare la morte tramite la recita rituale di una «preghiera di morte». Scrive: «La verità è inequivocabile. Per un periodo di almeno sette anni, quelli da me trascorsi a raccogliere dati medici e epidemiologie presso il Queen Hospital di Honolulu, non c'è stato anno in cui non mi sia imbattuto in uno o più casi in cui la vittima moriva a causa di agenti misteriosi catalizzati da una potente azione magica, e ciò a dispetto del prodigarsi di tutti i medici». Long afferma che secondo la filosofia dei kahunas, l'uomo è composto da almeno tre "io" o anime: l'io inferiore, quello mediano e quello superiore. Il primo corrisponde grossolanamente a quella struttura psichica che Freud ha identificato nell'inconscio. Esso sovrintende alle forze vitali e sembra possedere una connotazione fondamentalmente emotiva. Il secondo corrisponde alla cosiddetta "consapevolezza ordinaria", quella che regolamenta il nostro vivere quotidiano. Il terzo, l'io superiore, può accostarsi alla mente super-conscia e possiede poteri che ancora oggi non siamo in grado di conoscere. Questi tre io sono ospitati dal corpo fisico e se ne separano soltanto al momento della morte. Capita però a volte, che quello inferiore riesca a sganciarsi in modo indipendente dagli altri due. Così facendo si trasforma in uno "spirito legato alla terra", del genere di quelli che provocano i fenomeni disturbanti del poltergeist. Stando ai kahunas, l'io inferiore ha una sua propria memoria, dote che quello mediano non possiede. È per questo che quando la separazione coinvolge un io intermedio, questi diventa un'entità derelitta, così retta a vagare senza costrutto, trasformandosi in quello che noi chiamiamo un fantasma. Long afferma che le «preghiere di morte» chiamano sempre in causa degli spiriti bassi», facilmente suggestionabili e riducibili all'obbedienza. Per la povera vittima del sortilegio, comincia una vera e propria tortura: mano a mano che lo spirito gli sottrae l'energia vitale, si infiacchisce sempre di più. Long ottenne la maggior parte delle informazioni a proposito degli sciamani hawaiani - esperienze ricordate in un libro - da un medico di nome William Tufts Brigham che li aveva studiati a fondo per molti anni. Ricordava un caso particolare. Un giorno aveva assoldato un gruppo di guide e portatori hawaiani per compiere un'escursione in montagna. Fra i portantini vi era un giovane di 15 anni che, di colpo, era caduto ammalato, assalito da un intorpidimento che gli saliva dai piedi con lenta progressione. Rivelò a Brigham che era vittima del maleficio di una preghiera di morte. Alla fine si era venuto a sapere che il kahuna del villaggio, che ce l'aveva con i bianchi, aveva inviato una preghiera di morte contro il giovane a causa della sua frequentazione con un uomo bianco. Per lui, chiunque lavorava con un bianco era condannato a diventare vittima di un sortilegio di morte. Ma anche Brigham godeva di fama di sciamano presso i locali, i quali gli chiesero di intervenire. E lui aveva accettato la sfida, dichiarando che l'avrebbe combattuta sullo stesso piano del kahuna. Partendo dall'assunto che era stato assalito da "spiriti bassi'', Brigham aveva convinto il ragazzo che lui era una vittima innocente e che insieme sarebbero riusciti a sconfiggerli, rimandando al mittente - ossia a colui che gli aveva scagliato contro la maledizione - quelle stesse forze negative che invece di far del male a lui avrebbero distrutto l'agente magico. Il ragazzo aveva capito, e promise che si sarebbe impegnato per guarire. Per oltre un'ora rimase fortemente concentrato su quella idea, poi, di colpo, la tensione e la sofferenza si erano allentati. Finalmente riusciva a muovere liberamente le gambe e stava bene. Quando, qualche tempo dopo, Birgham era tornato al villaggio, aveva trovato il ragazzo in ottima salute. Il kahuna invece era morto, dopo avere annunciato agli altri del villaggio che il mago bianco gli aveva scagliato contro gli spiriti del male. Torniamo, adesso, al tema principale di questo capitolo. Come non riconoscere nella debilitazione sofferta da Carter e dai tanti che vennero colpiti dalla maledizione del faraone i nefandi effetti della preghiera di morte descritta da Brigham e Long? Tuttavia, per riconoscerlo, non pare affatto necessario instaurare un collegamento diretto fra i kahunas delle Hawai e la religione magica dell'antico Egitto. Perché, ammesso che Playfair e Long siano nel giusto, è più che mai logico immaginare che se il fenomeno del poltergeist e gli "spiriti bassi" possono essere utilizzati per delle operazioni di magia negativa, anche gli antichi sacerdoti egizi ne facessero uso per sigillare le tombe ponendoli come "guardiani della soglia". Nel suo libro “Egitto segreto”, l’occultista Paul Brunton descrive l'esperienza di una notte trascorsa nella Camera dei Re all'interno della Grande Piramide. Racconta della strana sensazione di non sentirsi solo, un sentimento che, poco alla volta, gli si era manifestato come la presenza di «entità antagoniste». «Tutto attorno a me, sembrava si accalcassero creature elementari mostruose, orrori diabolici del mondo sotterraneo, forme grottesche, bizzarre, orribili, riluttanti, dall'aspetto rozzo... D'incanto, come si erano presentate, erano poi scomparse». Subito dopo, Brunton rivela di aver avvertito la netta sensazione di essere in compagnia di un essere benevolo e di aver avuto la visione di due antichi sacerdoti. Secondo Vandenberg, che riporta questa notizia, il racconto potrebbe essere solo frutto della fervida ed eccitata immaginazione di Brunton, anche se si affretta a ricordare che, quando nel 1972 aveva pure lui visitato la Grande Piramide, una signora del gruppo d'improvviso era sbiancata, si era sentita male e non era più riuscita a muoversi. Ripresasi dal malore, gli aveva confessato: «È successo come se qualcuno, di colpo, mi avesse colpita con forza per farmi del male». Stando alla guida, "attacchi" del genere erano piuttosto comuni. Se, dunque, questi malesseri sono il mero frutto dell'immaginazione, nulla vieta di ritenere che anche in merito alla presunta maledizione del faraone si possa addurre la stessa causa. Dopo tutto, a ben considerare, Carnarvon morì in seguito di quella che sembrò essere la puntura di un insetto, altri di attacchi cardiaci o di collassi cardiocircolatori, ossia di cause che sembrano non avere nulla in comune con le forze negative che si sprigionano quando il soggetto diventa vittima di una preghiera di morte. Nel corso di un programma della BBC dedicato a questo mistero, Henry Lincoln, studioso dell'occulto interessatosi a lungo del caso esoterico di Rennes-le-Chateau, ha detto: «Sono ormai convinto che non è mai esistita quella che la gente chiama maledizione dei faraoni». Meglio. Tutto sommato è certamente più rassicurante credere che sia proprio così.

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