domenica 26 settembre 2010

Joan Norkot: il mistero del cadavere sanguinante

Joan Norkot: il mistero del cadavere sanguinante
Quando nel 1690 Sir John Mainard, da tutti considerato «gentiluomo di grande qualità e giudice integerrimo» morì, fra le sue numerose carte venne rintracciato un documento processuale in cui si narrava il caso del cadavere di una donna morta trucidata che incolpava i suoi assassini. L'intero documento venne pubblicato nel luglio del 1851 sulla rivista «The Gentleman's», su iniziativa di un certo avvocato Hunt che era venuto in possesso di una copia del testo. Il fatto veniva definito così straordinario che lo stesso giornale prendeva le distanze titolando: Un singolare caso di superstizione. Tuttavia Mainard sottolineava in modo chiaro che l'episodio aveva avuto
molti testimoni oculari, fra cui anche due preti. Il processo in cui era stato dibattuto il caso sconcertante si era consumato all'assise di Hereford, nell'Herefordshire, «nel quarto anno di regno di sua maestà re Carlo I» (1629), ben sessant’anni prima della morte dello stesso Mainard. Il testo di Mainard compare per intero nel libro del reverendo Montague Sommers che si intitola The Vampire in Europe (1929). Anche il racconto presentato da Valentine Dyall in Unsolved Mysteries del 1954 (grazie alle ricerche di Larry Forrester e Peter Robinson) si basa sui resoconti del processo, pur ammettendo trattarsi di informazioni «sospettosamente scarne». Il resoconto presenta una a dir poco irritante mancanza di date, riferimenti e persino nomi, tuttavia in linea generale è sufficientemente chiaro. Ecco la storia. Fra i coniugi Arthur e Joan Norkot si è venuta a creare una tensione altissima: lui la sospetta di infedeltà e tradimento. Forse il vero problema per la coppia è il sovraffollamento del misero alloggio in cui vivono. Due stanzette in cui sono costretti a campare duramente assieme con un figlio, la madre di Arthur, Mary Norkot, la sorella di lui col marito, Agnes e John Okeman. Una mattina Joan viene trovata cadavere nel letto con la gola tagliata. A fianco sta il bimbo, illeso. Sul pavimento un coltellaccio da cucina coperto di sangue. Stando alla testimonianza dei parenti, quella notte il marito non l'aveva trascorsa in casa. Era andato a rendere visita a degli amici nei pressi di Tewkesbury. I parenti che vivono con John escludono in modo tassativo che l'uomo possa essere entrato di soppiatto nella casa per perpetrare il delitto, dal momento che per arrivare alla camera da letto era d'obbligo transitare nella stanza dove dormiva tutto il resto della famiglia. Nel corso dell'inchiesta che segue, viene riconosciuto ampiamente il difficile rapporto di coppia e si ricorda che proprio quella sera Joan «era alquanto alterata» prima di andare a dormire. Ma quando gli inquirenti avevano trovato il coltello avevano notato non solo che stava a una certa distanza dal letto, ma anche che il manico era rivolto verso la porta. Ammesso, ma non concesso, che Joan si fosse uccisa, come avrebbe fatto, dopo essersi sgozzata, a gettare in terra il coltello orientandolo col manico verso la porta? Malgrado questa e molte altre incongruenze, il verdetto parla di “felo-de-se”, vale a dire di suicido, e la povera donna viene frettolosamente sepolta, probabilmente in terra sconsacrata. Ma la prova del coltello non convince nessuno e si incomincia a mormorare sul caso (Mainard parla semplicemente di «osservazioni in merito a diverse circostanze»). Le voci aumentano fino a che il coroner è costretto a far riesumare il cadavere per riaprire le indagini. L'esame del corpo evidenzia che l'osso del collo è spezzato. È evidente che questo la donna non avrebbe potuto autoinfliggerselo. Qualcuno scopre poi che la quantità di sangue trovata sul pavimento è superiore a quella trovata sul letto, particolare a dir poco singolare, se, come era stato detto, Joan si era sgozzata sul letto. Per di più l'alibi del marito prende a vacillare e poi crolla, quando, interrogati a fondo gli amici, questi negano di averlo incontrato quel giorno, affermando anzi di non vederlo da più di tre anni. Malgrado altre prove si accumulino a condanna dei familiari, ritenuti conniventi, il tribunale non ritiene si tratti di fatti decisivi e scagiona tutti. Ma il giudice Harvey, dopo essersi ripreso dalla sorpresa del verdetto, decide che un delitto così assurdo e clamorosamente tale non può restare impunito e decide di ricorrere contro la sentenza. L'iniziativa viene presa per il buon nome e la difesa dei diritti del piccolo figlio di Joan. Il dibattito riprende al cospetto del giudice Harvey. Ed è in questo frangente che a un certo momento viene fuori la testimonianza anonima di un prete - il sacerdote della parrocchia - che sostiene che il cadavere è in grado di indicare il suo assassino. Davanti all’incredulità del giudice che chiede al prete se egli abbia per davvero assistito a una simile cosa, questi gli risponde dicendo che «si augurava che tutti potessero constatarlo». Ciò che accadde è molto vicino a questa dinamica dei fatti. A trenta giorni dalla sepoltura, il corpo di Joan era stato esumato. La tomba aperta, la bara scoperchiata deposta accanto, probabilmente su un cavalletto. Non doveva essere un bello spettacolo, perché la giugulare tranciata aveva svuotato l'intero corpo del sangue. Ad ogni buon conto, seguendo un'antica forma di superstizione, a ogni accusato (i familiari) era stato imposto di toccare il cadavere. Stando alla superstizione, quando un morto viene toccato dall'assassino la ferita riprende a sanguinare. Davanti al cadavere la signora Okeman era caduta in ginocchio, pregando Dio di dimostrare la sua innocenza. Poi, come gli altri, aveva toccato la morta. Il prete depose il seguente resoconto: “mano a mano che venivano chiamati, i sospettati dovevano toccare la fronte del cadavere, che era ormai diventata viola e scura come carne in putrefazione....ad un tratto però la fronte aveva incominciato a trasudare, tanto da concretizzarsi in lacrime scendendo sul viso; nel frattempo la fronte cambiava colore, tornando ad essere rosea, come quando la donna era viva. Poi il cadavere aveva spalancato un occhio per richiuderlo subito dopo, e questo apri e chiudi si era ripetuto parecchie volte. Poi si era sfilato la vera matrimoniale tre volte e tre volte se l'era rimessa, tanto che l'anulare si era messo a sanguinare e alcune gocce erano cadute sull'erba”. Era su questa incredibile testimonianza che il giudice aveva espresso dubbi. Allora il prete si era appellato al fratello, anch'egli sacerdote di una vicina parrocchia, pure presente ai fatti. Il secondo prete aveva confermato ogni cosa: che la fronte aveva incominciato a sudare, che il colore era cambiato e da livido era tornato roseo come quello della carne fresca e viva, che l'occhio si era aperto e che il dito si era mosso e rimosso per tre volte. (Detto per inciso, questo fatto era stato interpretato come la segnalazione che solo tre dei quattro indagati erano colpevoli). Ciò che ne era conseguito non era stata che la ripetizione di quello che già era stato detto al primo processo. Il corpo senza vita della povera Joan era stato ritrovato sul letto «in posizione composta», le coperte in ordine, il figlioletto disteso accanto. Già solo questi particolari attestavano un delitto, perchè era letteralmente impossibile che la donna si fosse tagliata la gola in qualche altra parte della camera - il pavimento era tutto imbrattato di sangue - e si fosse poi gettata sul letto. Oltre tutto, il collo spezzato indicava che la poveretta era stata aggredita con un certo impeto. Se è possibile che una persona si spezzi il collo da sola, è del tutto impossibile che subito dopo si tagli la gola. Lo stesso per il contrario, ossia che si sgozzi e dopo si spezzi il collo. Dagli atti processuali pareva si fosse verificata la seguente dinamica dei fatti. Quella sera i due coniugi avevano litigato violentemente e alla fine il marito aveva preso la moglie per la gola. La donna era caduta battendo violentemente la testa contro qualcosa, rompendosi l’osso del collo. Preso dal panico - perché la morte era stata accidentale - Arthur Norkot si era consigliato sul da farsi con la madre, la sorella e il marito di lei, John Okeman, che aveva voluto mantenersi estraneo alla vicenda. Per evitare sospetti a proposito del collo spezzato, avevano pensato di tagliarle la gola con un coltello. Ma erano talmente spaventati che avevano eseguito l'operazione sul pavimento invece che sul letto. Poi avevano sistemato Joan alla bell'e meglio col figlioletto accanto, il quale, nel frattempo, aveva continuato a dormire. Qualcuno di loro aveva persino lasciato delle evidenti impronte sulla sua mano. (Il giudice Hyde, che era stato chiamato a decidere sul caso, era così inesperto da non essere neppure in grado di distinguere se l'impronta fosse di una mano destra o sinistra). Poi, prima di lasciare la stanza, qualcuno aveva gettato il coltellaccio - che probabilmente stava nei pressi della porta - nella stanza, che si era così venuto a trovare vicino al letto. Da ultimo, dopo essersi pulito le mani dal sangue, Arthur Norkot se n'era andato, dando istruzione alla madre di "trovare" il corpo la mattina dopo e raccontare che il figlio aveva trascorso la notte da amici in quel di Tewkesbury. Appare più che evidente che il tentativo di far passare la morte di Joan come un suicidio è talmente palese che anche un investigatore ottuso avrebbe potuto e dovuto accorgersene. Ma nel 1629 l'investigazione scientifica era una disciplina pressoché sconosciuta. Sarebbero occorsi altri due secoli prima che in Inghilterra nascesse un corpo di polizia riconosciuto. Quando qualcuno era sospettato di omicidio, il metodo standard di investigazione era la tortura: o confessava o moriva. All'epoca nessuno ritenne che le prove a carico della famiglia Norkot fossero sufficienti. Ma questo ci porta all'interrogativo più inquietante. È vero che il corpo senza vita della donna si era come ridestato per accusare i suoi assassini? I lettori interessati agli argomenti dedicati alla possessione da parte degli spiriti dei morti, non potranno fare a meno di ammettere la cosa come possibile. In alcuni casi, sembra persino che lo spirito che "possiede" il vivente sia anche in grado di innescare altri fenomeni, come quello dello spostamento di oggetti (poltergeist). In un caso a dir poco straordinario, la vittima di un delitto sembrerebbe essere addirittura tornata ad accusare il suo carnefice. Dunque l'ipotesi che il cadavere di Joan Norkot abbia dato alcuni segni di vita anche molti giorni dopo la morte, potrebbe non essere completamente assurda, anche se è doveroso segnalare che nell'ampia e secolare storia del paranormale si tratterrebbe dell'unico caso. Nel suo libro “Unsolved Mysteries”, Valentine Dyall suggerisce un'ipotesi che sembra credibile: che i due medici che sovrintesero al caso abbiano voluto provocare una forte scossa ai presenti e ai giudicanti al fine di ottenere una confessione aperta da parte degli autori del delitto. Vediamo come. Nella mano sinistra della donna avevano nascosto una piccola vescica contenente del liquido rosso scuro, la cui apertura poteva essere manovrata tramite un sottilissimo filo, che era stato fatto passare nell'anulare, il dito della fede matrimoniale. Un altro filo invisibile era stato collegato alle ciglia di un occhio. Ambedue le estremità dei fili erano poi state fissate alle due maniglie che servivano per trasportare la bara. Quando si era svolto il "test" della verità, per cui gli imputati avevano dovuto toccare il cadavere, i due medici (sistematisi ai lati del feretro) avevano agito sui fili. Ecco che così l'occhio si era aperto e chiuso e il sangue aveva ripreso a sgorgare in tal misura da scendere lungo un fianco e addirittura fuoriuscire da un interstizio della cassa costruita in modo rozzo e grossolano. La rinnovata fuoriuscita del sangue indicava, dunque, che la donna era stata assassinata da uno di coloro che l'avevano appena toccata. Nel rapporto si legge che qualcuno, incredulo, si era preso la briga di osservare da vicino il sangue riscontrando che si trattava di sangue autentico. Un accorgimento logico, ovviamente, cui avevano provveduto i due medici autori della messa in scena. Sebbene l'ipotesi della Dyall abbia un senso, restano lo stesso molti dubbi. Per esempio, i fili, per quanto sottili avrebbero potuto essere notati. E che dire della testimonianza dei due preti che sostengono che la carne della fronte aveva ripreso il suo colorito roseo e vitale? Pura immaginazione? Possibile, salvo il fatto che la trasudazione della fronte viene indicata come il primo degli sconcertanti fenomeni manifestatisi sul cadavere, prima ancora dei movimenti dell'occhio e del dito. D'altro canto, volendo sostenere l'ipotesi, diciamo così, "immaginifica" sarebbe stato più logico che i segni vitali rivelatori partissero prima dal volto per poi trasmettersi al resto del corpo. Lasciate da parte le spiegazioni possibili, sta di fatto che la testimonianza dei due preti risultò decisiva. Anthur Norkot, la madre e la sorella vennero condannati a morte. Per motivazioni che Sir John Mainard (che all'epoca del processo aveva il grado di sergente) non spiega, la giuria stabilì di non condannare il cognato di Norkot, John Okeman. All'atto della pronuncia della sentenza, tutti e tre i condannati avevano gridato: «No, no, io non l'ho fatto». Poi Agnes Okeman era stata rilasciata perché incinta, mentre Mary e Arthur Norkot erano stati impiccati. Alla fine Mainard conclude dicendo: «Ho indagato per sapere se nel momento dell'esecuzione capitale abbiano rivelato qualcos'altro. Da quello che mi è stato detto, non l'hanno fatto».

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